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Fausto Bertinotti tra Warhol e l’auto blu: addio simbolico alla rivoluzione

Nel giorno in cui Fausto Bertinotti mette all’asta la sua collezione privata d’arte, si chiude simbolicamente una stagione della sinistra italiana. Ma il passato, come l’auto blu in divieto, torna sempre
Fausto Bertinotti tra Warhol e l’auto blu: addio simbolico alla rivoluzione
© Foto A. Masella

Luca TalottaLuca Talotta

4 lug 2025

In un solo colpo, Fausto Bertinotti ha fatto piazza pulita del proprio passato più iconico e discusso, quello che lo aveva reso celebre come leader di una sinistra in cachemire, sospesa tra rivoluzione proletaria e amori borghesi. Lo ha fatto con una mossa tanto concreta quanto simbolica: la vendita all’asta della collezione d’arte di famiglia, curata dalla casa d’aste Finarte a Milano, che ha portato a un incasso complessivo di oltre 300.000 euro, quattro volte superiore alle stime iniziali.

Non era certo una collezione da realismo socialista, né un museo personale di memorabilia comuniste. Tutt’altro. Tra i lotti messi in vendita figurano due serigrafie di Andy Warhol raffiguranti Mao Tse-tung, aggiudicate rispettivamente a 106.000 e 80.000 euro, che da sole hanno costituito oltre la metà dell’intero incasso. I due lavori, datati 1972, erano stati donati a Lella e Fausto Bertinotti da Mario D’Urso, noto banchiere e collezionista.

A completare la raccolta, opere di Piero DorazioMario SchifanoMario CeroliGiosetta Fioroni e persino un vaso di Luca Maria Patella. Una selezione di artisti molto lontani dai canoni estetici del proletariato, ma perfettamente in linea con una certa visione “altra” della militanza borghese. E se il compagno Aleksandr Deineka, esponente del realismo socialista, non compare nel catalogo, abbondano invece firme pop e contemporanee, in perfetta armonia con gli arredi di una borghesia colta e disincantata.

«Compagni, in alto le aste», verrebbe da dire, parafrasando con ironia lo slogan storico. La vendita di 21 opere su 24, con rilanci vivaci sia in sala che online, è stata non solo un successo commerciale, ma un evento culturale capace di aprire una finestra su un’epoca in cui l’estetica politica si confondeva con la politica dell’estetica.

Il cashmere, le polemiche e la lunga ombra dell’auto blu

Ma la collezione d’arte di Bertinotti non è l’unico simbolo di uno stile di vita che ha fatto discutere. Non si può parlare dell’ex leader di Rifondazione Comunista senza tornare sulla celebre vicenda dell’auto blu in sosta vietata a Bordighera, episodio diventato emblema di un certo scollamento tra ideali proclamati e scelte quotidiane.

Era l’agosto del 2010 quando la Corte dei Conti fu chiamata a occuparsi del caso: l’auto di servizio concessa all’ex presidente della Camera era stata immortalata parcheggiata di fronte a uno stabilimento balneare della Riviera ligure, in violazione delle norme sulla sosta. Un’immagine potente, che suscitò polemiche trasversali e interrogazioni parlamentari.

Il deputato del Pdl Roberto Cassinelli e il gruppo di consiglieri regionali liguri guidati da Matteo Rosso ne fecero una questione pubblica: «Forse è nei suoi pieni diritti usare l’auto blu – disse Rosso – ma in tempi di crisi un comportamento eticamente corretto avrebbe previsto l’uso di mezzi pubblici».

L’episodio finì su tutti i giornali, alimentando il dibattito su privilegi, coerenza e stile di vita di chi, pur avendo servito le istituzioni, continuava a rappresentare – almeno idealmente – una sinistra radicale e popolare. Un tema che si trascinò per mesi e che, ancora oggi, rappresenta uno dei momenti più controversi del “personaggio” Bertinotti.

L’ultima metamorfosi di un rivoluzionario borghese

A oltre dieci anni di distanza da quella vicenda, la vendita all’asta della collezione d’arte può essere letta come un gesto di rottura definitiva con il passato. Non solo con la militanza, ormai archiviata, ma anche con i simboli stessi di una narrazione politica che ha sempre fatto fatica a conciliare rivoluzione e comfort.

Bertinotti è stato – e resta – un personaggio che ha diviso: amato per la sua eleganza intellettuale, criticato per una certa inclinazione all’estetica del privilegio. Il suo guardaroba in cachemire, le vacanze in barca a vela e, appunto, la predilezione per l’arte contemporanea, hanno alimentato per anni le battute su un comunismo ormai più couture che culturale.

Eppure, in questa scelta di dismettere opere tanto preziose – anche dal punto di vista simbolico – si intravede un gesto che va oltre il calcolo economico. È un’azione che, volente o nolente, parla di fine ciclo, di ritiro, di silenziosa ammissioneche la rivoluzione, almeno in casa, è finita da un pezzo.

Anche perché il valore dell’arte, oggi, non si misura più solo nei rilanci delle aste, ma nella capacità di rappresentare un’epoca. E in questo, la collezione Bertinotti è stata un campione insospettabile: ha raccontato più della politica che tanti comizi.

Quando il lusso diventa un archivio sentimentale

C’è poi un lato umano, quasi malinconico, in questa dismissione. Molte delle opere vendute erano legate a momenti importanti della vita della coppia Bertinotti. Il quadro di Dorazio regalato per i 32 anni di matrimonio, la dedica affettuosa a Lella, la compagna di sempre, definita «custode e promotrice delle nostre speranze». Pezzi che diventano reliquie emotive prima ancora che oggetti da collezione.

In questo, la vendita ha anche qualcosa di liberatorio, di terapeutico. Forse non un addio alla politica, ma un addio a ciò che la politica è stata, un rito di passaggio tra ideologia e consapevolezza.

Oggi Fausto Bertinotti non ha più bisogno di giustificare la sua eleganza o la sua passione per l’arte. I tempi sono cambiati, le polemiche si sono affievolite, e le auto blu – anche quelle parcheggiate in divieto – fanno ormai parte del folklore politico. Ma resta il gesto: un ex rivoluzionario che vende Mao per 106.000 euro, e che sorride sotto tre Warhol in salotto. La sintesi perfetta di una vita piena di contraddizioni, e per questo autenticamente umana.

 

 

 

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